La pratica del “fare”
photo credit: Joshua Kaufman
La metafora del viaggio è usata in tutte le culture per descrivere la vita e la ricerca del suo significato. Nelle culture orientali i termini Tao (cinese), Do (giapponese) sono intesi come percorso e nel buddismo la pratica della meditazione è di solito descritta come un cammino, un percorso di consapevolezza.
Come solito, agli inizi di un corso, mi viene chiesto di fissare degli obiettivi da raggiungere sia per la formazione che poi per la pratica quotidiana.
Questo è corretto: ognuno di noi deve sapere dove vuole e deve arrivare, ma per raggiungere questi obiettivi è indispensabile tenere presente una serie di altri aspetti.
Per tutti noi occidentali, all’opposto degli orientali, l’obiettivo è più importante della modalità, del percorso, per raggiungerlo. Così, molto spesso, fissiamo obiettivi per i nostri collaboratori senza prendere in considerazione cosa significhino per loro, quali valori assumano nella loro attività e che motivazione debbano ricoprire. E’ l’obiettivo che prevale sul percorso.
La scorsa settimana parlavo con un imprenditore che mi diceva di essere convinto che per raggiungere qualsiasi obiettivo sia indispensabile la corretta predisposizione a raggiungerlo. Non posso che dargli ragione perché la sua visione è orientata al percorso: per lui è l’insieme delle modalità da adottare e quindi il raggiungimento degli obiettivi diventa una logica conseguenza.
Spesso, soprattutto nei momenti decisivi, gli imprenditori mi dicono di non avere idea di dove stanno andando o di che tecniche usare. Per sapere bene dove ci si trova è importante vivere la pratica del “fare” e diventarne consapevoli.
Per prima cosa bisogna estromettere dalla nostra vita l’ egocentrismo, che ci fa pensare di non aver bisogno di nessuno, e l’arroganza che ci fa supporre di sapere già tutto.
Poi occorre diventare consapevoli del percorso che significa chiedersi sempre dove stiamo andando e che cosa realmente cerchiamo. La pratica continua della consapevolezza ci permette di misurarci con noi stessi: per esempio nel vincere mentalmente le abitudini o nel capire che grado di attenzione abbiamo verso noi stessi. Attenzione però a non focalizzarsi troppo sugli aspetti della quotidianità, su quei riti che possono diventare maniacali facendoci perdere di vista il termine del viaggio, cioè l’obiettivo. E’ quella che in psichiatria è definita la “sindrome della nave”: l’estrema cura dei dettagli devia l’attenzione dallo scopo finale, dall’obiettivo ultimo.
Come vedete, e penso soprattutto a tutti quelli che agiscono sempre senza dare troppo peso alla riflessione, la pratica del “fare” è difficile perché presuppone sapere le aspettative che abbiamo dal nostro viaggio.
“Fare” è un viaggio avventuroso che auguro a tutti voi, sicuro che raggiungerete mete da sogno.
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