20
Giu
2012

Una terza via per il Change Management

Di Michela Rea pubblicato mercoledì 20 giugno 2012 in Risorse infrastruttura e ambiente |

 

Due approcci contrapposti al management e una possibile terza via

 

Senza entrare in questa sede nelle motivazioni che spingono un’organizzazione ad iniziare un progetto di change management mi sembra  che le aziende che intraprendono percorsi di cambiamento scelgano tra due alternative nette:

 

L’approccio “iper-razionale”– L’azienda si concentra sul cercare di modificare le manifestazioni pratiche dei problemi: ridisegna i processi, cambia le regole, sposta le persone e ne inserisce di nuove, nei casi peggiori arriva a cercare delle singole figure o aree ritenute responsabili degli errori e le trasforma in “capro espiatorio”. Questo tipo di approccio è estremamente oneroso in termini di sforzo/risultato e anche quando viene portato avanti con intelligenza, non si limita cioè a cercare colpevoli e rafforzare la disciplina ma introduce tutta una serie di migliorie per facilitare il lavoro quotidiano, rischia di essere parzialmente insoddisfacente. Si rimuove infatti il sintomo ma il problema di mentalità (un pregiudizio interno, un modo sbagliato di guardare al cliente, uno stile manageriale che provoca effetti collaterali negativi) tenderà a manifestarsi in un’altra forma.

 

L’approccio psicologico-motivazionale – L’azienda lancia progetti di counseling/coaching individuale e collettivo improntati al favorire la coesione tra le persone, modificare la visione del futuro, migliorare il morale, creare un clima di maggiore fiducia. Anche nei casi in cui il coaching è estremamente professionale, questo tipo di approccio presenta due tipi di problemi. La prima difficoltà è che sul singolo gli effetti motivazionali possono essere buoni ma che difficilmente si riesce ad incidere sulla “super-persona” – organizzazione che è somma, non lineare, dei diversi modelli mentali e stili individuali. In questo senso il coaching è anche poco incisivo sui problemi perché di frequente questi sono originati dall’interazione tra persone e non da carenze del singolo. Il secondo aspetto problematico è che molto spesso il professionista che si occupa di counseling è troppo lontano dalla realtà operativa e produttiva dell’azienda per riuscire a creare un legame tra i problemi filosofico-psicologici e quello che accade sul campo.

 

Io penso che il modo più efficace per affrontare un percorso di change management sia farsi guidare da metodologie in grado di coniugare scienza e comprensione degli elementi non puramente razionali. Queste metodologie esistono e si chiamano discipline sistemiche.

Tali discipline uniscono conoscenze gestionali ad una strumentazione concettuale fortemente “umanistica” e umana. Da una parte infatti algoritmi e prassi tecnico-operative consentono di presidiare gli aspetti operativi e “materiali” del business, dall’altra si lavora sulla comprensione della mentalità dell’organizzazione e sull’individuazione dei nessi tra questa e le prestazioni.

Questa sinergia di aspetti hard e soft permette la costruzione di soluzioni migliorative e percorsi di cambiamento precisi, specifici, solidi.

L'autore: Michela Rea

"A giudicare dal numero di persone che scrivono sul proprio profilo linkedin di essere dei coach da parte delle organizzazioni c'è una domanda significativa di change management. Ma come lavorano questi professionisti del cambiamento? E come si costruisce un percorso di miglioramento profondo, coerente e completo?"

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Questo articolo è stato pubblicato mercoledì 20 giugno 2012 da Michela Rea il mercoledì, giugno 20, 2012 alle 06:30 ed appartiene alla categoria Risorse infrastruttura e ambiente. Puoi seguire i commenti a questo articolo attraverso i feed RSS 2.0. Lascia un commento!

 

Attualmente sono stati lasciati 3 commenti a “Una terza via per il Change Management”

  1. 1
    Franco ha detto:
    20 giugno, 2012

    Ciao Michela e grazie per il tuo interessantissimo contributo.

    Chiaramente, i due esempi di Change Management che citi (aspetti solo hard da una parte, solo soft dall’altra) sono due estremi, entrambi con punti di forza e di debolezza.

    Nella mia esperienza, affinché un progetto di Change Management “funzioni” (nel senso che sia in grado di dare risultati in termini di efficacia ed efficienza), deve avere almeno due caratteristiche.

    La prima è che sia voluto dalla Direzione (e questo lo metterei in collegamento con l’efficacia, perché in azienda si fa quello che vuole la Direzione).

    La seconda è che tutte le persone siano coinvolte (e questo lo metterei in collegamento con l’efficienza).

    Ora, sulla base della mia esperienza, l’attività di coaching (o più in generale l’attenzione all’aspetto soft) supporta, continuativamente, il progetto. Quando, a fronte di un aspetto di cambiamento “hard” percepisci una resistenza, è necessario attivare il piano soft per risolverla. E viceversa.

    Nella mia esperienza, la capacità di gestire contemporaneamente aspetti hard ed aspetti soft, la sensibilità di capire l’insorgere di un problema e la disponibilità di strumenti per risolverlo ( qualunque livello si presenti) sono fattori vincenti.

    Ciao, alla prossima!

  2. 2
    Michela Rea ha detto:
    20 giugno, 2012

    Ciao Franco, ottimo e condivisibile esempio, mi faceva piacere commentare ulteriormente il fatto che si tratta dei due estremi perchè è vero ma al tempo stesso non significa che questi estremi siano un caso teorico che non esiste. A livello dell’estremo soft la grande maggioranza dei “coach” vi appartengono e sono accomunati dal capire veramente poco i processi e gli aspetti tecnici e, cosa forse più grave, dal non provare neanche a capire cosa fa l’azienda. Di conseguenza in linea di massima riescono ad incidere veramente poco sulle prestazioni. Al contrario molti tecnici, di prodotto ma anche di algoritmi produttivi, approcci gestionali produttivi etc sono molto sbilanciati sull’hard e frequentemente combattono “l’irrazionalità” dell’azienda che non adotta soluzioni perfettamente razionali.
    A buon diritto chi si occupa di qualità ad alto livello come molto delle persone che gravitano attorno a questo sito può rivendicare un ruolo più da protagonista nel processo di cambiamento in quanto per estrazione naturalmente incline a far coesistere aspetti hard e soft

  3. 3
    Gianluca Gaggioli ha detto:
    20 giugno, 2012

    Su come affrontare la resistenza al cambiamento vi è uno splendido studio denominato “formula di Gleicher”

    Questa formula “inventata” da Gleicher chiarisci il concetto di cambiamento e precisa che tale cambiamento è realizzabile all’interno delle organizzazioni soltanto se il prodotto delle forze che tendono al cambiamento è prevalente rispetto alle forze che “remano contro”, il cambiamento può realizzarsi soltanto nelle organizzazioni dove viene manifestata un vera forza di volontà a realizzarlo (o forte impulso della proprietà/direzione).

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